Questa
mattina mi son svegliato conservando nitida memoria di un sogno sognato. Non mi capita spesso, tuttavia questa mattina è capitato. Sarà per via dei
discorsi che ieri in cucina ascoltavo proferire a mia moglie, mi son detto, o per la voce di
mia madre al telefono (da quando sono padre la sento molto spesso), o forse
anche per via del mare che vedo da qui, distante 5 km in linea d’aria – in
qualche maniera irraggiungibile. Mio figlio ogni tanto mi chiede quando andremo. Intende quando sarà una
giornata uguale all’ultima in cui andammo, ossia quando torneremo tutti insieme in una cala precisa, a
suonare le chitarre e ballare. Ho pensato che forse andare al mare da adesso in
poi vorrà dire scendere per sentieri lungo le montagne, dormire nelle tende e
tornare tre giorni dopo. Di nascosto.
Il pensiero non mi è dispiaciuto. Ho pensato che non dispiacerà nemmeno agli
altri né a mio figlio. Ho pensato che nella semplicità di quello che lui
chiede, negli occhi limpidi con cui desidera, posso trovare persino il coraggio
per bruciarci in un attimo l’avvenire. L’avvenire.
Immaginate: metà febbraio, ossia l’ultima volta che andammo al mare tutti insieme, i calanchi bianchi, l’arenile lunghissimo, lo
specchio delle lagune all’orizzonte, l’acqua trasparente sotto le
increspature. Il bambino che corre da me a sua madre e poi torna indietro. Ha
una bambola in mano e tra gli altri bambini ride di una felicità incontenibile.
In quella corsa ho vissuto cent’anni. Quanto si deve campare? A costo di cosa? Nel
sogno che ho sognato stanotte c’era la spiaggia e c’era il mare, sulla spiaggia
passeggiavano i nonni con i nipoti, vecchi e bambini, insieme. Era l’ultimo
giorno concesso dal tempo, l’indomani i vecchi sarebbero morti. Ma questo solo
nella mia mente. Per chi passeggiava sulla spiaggia il tempo non c’era, era
immobile, passeggiavano su una sorta di eternità, qualcosa di atemporale, di
attuale, qualcosa di simile a Dio. Dunque la malinconia era solo mia. Loro, i
vecchi, i miei padri, erano sereni. Abbracciavano la loro morte facendo ciò che
amavano fare, ossia amare la vita per come l’avevano vissuta e quindi godendo
del mare e di quel che il loro amore aveva generato. Negli occhi limpidi dei
bambini, nella semplicità di quello che chiedono, è facile trovare il coraggio
per bruciarsi in un attimo. Quando ho aperto gli occhi, stamattina, ero ancora
preso dal sogno. Ho pensato che i nonni non andranno al mare con i nipoti
perché hanno tutti paura di morire. Che a 85 anni, malati, ancora si teme la
morte. Non la si desidera, la si teme. Che ci si rinchiude in casa, che si
chiude in casa il mondo, che si tengono distanti i nipoti, si tiene distante
tutto a tempo indeterminato perché altrimenti
si muore. Che un giorno con un bambino non vale la morte. Meglio aspettarla in
casa da soli. Quanto tarderà? A 85 anni non deve mancare molto. E poi ho
valutato il tempo. Pesante. Quanto cambia se si hanno dieci anni di meno? Se se
ne hanno solo 75 di anni? ci si può permettere di aspettare, magari. Oggi
potrebbe non essere l’ultima occasione di uscire mano nella mano al nipote. E
avendone 50? Cambia ancora? I bambini crescono. Reclusi, spaventati, distanti,
igienici. Imparano. No, non come si muore. Nemmeno come si vive. Neanche come
si sopravvive. Imparano come si disconosce. Riconosci un accanimento
terapeutico quando lo vedi? Riconosci una dittatura quando la vedi? E poi mi è
tornato in mente un particolare del
sogno, e allora sono andato al computer e ho cercato una canzone. Ma che la baciai perdio sì lo ricordo
cantava De André in quella canzone e nel mio sogno.
E così mi accovaccio accanto alla sorgente. Guardo il fondo della pozza, l’acqua è limpida, riesco a distinguere le rocce e le radici del salice. Potrei dire che rifletto sul saggio di Marcel Mauss – ho appena finito di leggerlo - ma non è vero: la posizione da accovacciato che mantengo plasticamente non suggerisce nulla di tanto intellettuale. In realtà giusto stamattina, molto presto, mentre salivo lungo i tornanti, sono stato divorato dal passo, dalla cadenza, dal fruscio dei calzoni sugli arbusti secchi, dal respiro - il mio. E ora come ora, accovacciato accanto alla pozza in cui l’acqua si riversa, il rumore di fondo cancella le voci e il turbinio nella testa - la mia. Quanta inimicizia è dovuta alle parole? Me lo chiedo mentre scrivo, prima di cominciare a scrivere, non lì, accovacciato accanto alla sorgente. Accanto alla sorgente invece, e in luogo di Marcel Mauss oltre che delle riflessioni sulla inimicizia, si conferma una sensazione, qualcosa di uditivo che si somma al gor...
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