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5: VACCHE IN FUGA


E così mi accovaccio accanto alla sorgente. Guardo il fondo della pozza, l’acqua è limpida, riesco a distinguere le rocce e le radici del salice. Potrei dire che rifletto sul saggio di Marcel Mauss – ho appena finito di leggerlo - ma non è vero: la posizione da accovacciato che mantengo plasticamente non suggerisce nulla di tanto intellettuale. In realtà giusto stamattina, molto presto, mentre salivo lungo i tornanti, sono stato divorato dal passo, dalla cadenza, dal fruscio dei calzoni sugli arbusti secchi, dal respiro - il mio. E ora come ora, accovacciato accanto alla pozza in cui l’acqua si riversa, il rumore di fondo cancella le voci e il turbinio nella testa - la mia. Quanta inimicizia è dovuta alle parole? Me lo chiedo mentre scrivo, prima di cominciare a scrivere, non lì, accovacciato accanto alla sorgente. Accanto alla sorgente invece, e in luogo di Marcel Mauss oltre che delle riflessioni sulla inimicizia, si conferma una sensazione, qualcosa di uditivo che si somma al gorgoglio delle acque sorgive e scroscianti e che mi ha assalito immediatamente, appena ho raggiunto il fondo della cava. È un surplus di silenzio. Qualcosa - sento anche se non penso - trattiene il fiato. Arrivando in fondo alla cava, dunque, dirigendomi alla sorgente, poco prima di accovacciarmi, mi impressiono ma non mi lascio impressionare. Seguo il corso d’acqua, la saia, scavalco il torrente e sono alla roccia da cui filtra l’acqua. L’acqua esce dalla roccia e va giù fino al mare. Giugiugiù, è la cantilena di A. da quando è nato. Lui è nato a cinquecento metri da qui. Qualcosa di impagabile. Un dono. E di nuovo potrei dire che mi viene in mente un altro saggio di Marcel Mauss, uno che invece mi capitò di leggere quasi trenta anni fa, ma nemmeno questo sarebbe vero. Tutto questo lo scrivo ripensando un momento, perdendo il movimento nel tentativo di raccontarmelo. Quanta inimicizia deriva dal racconto? E in luogo delle riflessioni su dono e racconto, lì, accanto alla pozza della sorgente, un istante dopo essere arrivato e un istante prima di accovacciarmi, guardo intorno per definire cosa sia l’impressione di un surplus di silenzio, ossia per individuare chi o cosa trattenga il fiato. Inquieto? No, non sono inquieto. Si trattiene il fiato per l’agguato ma non solo. Il fiato trattenuto lì non è fiato di aggressore. Ma ancora una volta sono solo impressioni: le parole verranno molto più tardi, scrivendo. Lì invece, accanto alla pozza della sorgente, mi accovaccio e pesco l’acqua, immergo la brocca. A terra, nel fango, arrivando non ho visto segni, nulla, il recinto all’imbocco del F è intatto, l’ho spiato con la coda dell’occhio, e lo sbarramento sul sentiero, quello d’emergenza, provvisorio da sei mesi, anche quello è intatto. Pesco l’acqua, poi mi alzo, metto la brocca nello zaino, lo zaino sulle spalle, tutto questo ovviamente non prima di aver bevuto, e alla fine mi giro e ce l’ho di fronte. Mi fissa abbassando il grosso muso e le corna, il silenzio si fa ancora più forte. Gli occhi li ha limpidi, riesco a distinguerne la pietra e la radice. Non accenna a nulla, solo chiede che trattenga anche io il fiato. Non ha campana al collo, ha con sé, alle spalle, il vitellino. Le sorrido. Vasto universo il suo, largo due colli. Evasione vuol dire avanzare fino al terzo colle, ossia alle sue pendici, al fondo della cava, lì dove ci incontriamo insomma. E così penso all’orto che calpesterebbe, alle piante che divorerebbe, ai pannelli e alla pompa che travolgerebbe, ai danni che mi procurerebbe. Così penserei, avrei dovuto pensare. E invece non è vero, non penso a questo. Penso a una madre col bambino? Penso a quale sia il tempo nella sua testa? Penso a quale coscienza abbia del fatto che i suoi parti finiscono in sparizioni? Penso alla gatta quando partorì in cucina e che vidi tornare e trovare il cucciolo morto? A come pianse prima di divorarlo? Potrei dire che penso a tutto questo e ancora non sarebbe vero. Non penso niente. Mi impressiona solo lo sguardo di una vacca senza campana con il vitello al seguito, la incontro in uno spazio clandestino, limitato all’attimo nel quale esiste libera di dimenticare l’universo in cui è nata e che la costituisce. Piovono considerazioni etiche, precipitano e sprofondano. Quanta idiozia è condensata in parole? L’universo in cui sono nato mi costituisce.

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