E così mi accovaccio accanto alla sorgente. Guardo il fondo
della pozza, l’acqua è limpida, riesco a distinguere le rocce e le radici del
salice. Potrei dire che rifletto sul saggio di Marcel Mauss – ho appena finito
di leggerlo - ma non è vero: la posizione da
accovacciato che mantengo plasticamente non suggerisce nulla di tanto
intellettuale. In realtà giusto stamattina, molto presto, mentre salivo lungo i
tornanti, sono stato divorato dal passo, dalla cadenza, dal fruscio dei calzoni
sugli arbusti secchi, dal respiro - il mio. E ora come ora, accovacciato
accanto alla pozza in cui l’acqua si riversa, il rumore di fondo cancella le
voci e il turbinio nella testa - la mia. Quanta inimicizia è dovuta alle
parole? Me lo chiedo mentre scrivo, prima di cominciare a scrivere, non lì,
accovacciato accanto alla sorgente. Accanto alla sorgente invece, e in luogo di
Marcel Mauss oltre che delle riflessioni sulla inimicizia, si conferma una
sensazione, qualcosa di uditivo che si somma al gorgoglio delle acque sorgive e
scroscianti e che mi ha assalito immediatamente, appena ho raggiunto il fondo
della cava. È un surplus di silenzio. Qualcosa
- sento anche se non penso - trattiene il
fiato. Arrivando in fondo alla cava, dunque, dirigendomi alla sorgente, poco
prima di accovacciarmi, mi impressiono ma non mi lascio impressionare. Seguo il
corso d’acqua, la saia, scavalco il torrente e sono alla roccia da cui filtra
l’acqua. L’acqua esce dalla roccia e va giù fino al mare. Giugiugiù, è la
cantilena di A. da quando è nato. Lui è nato a cinquecento metri da qui.
Qualcosa di impagabile. Un dono. E di nuovo potrei dire che mi viene in mente
un altro saggio di Marcel Mauss, uno che invece mi capitò di leggere quasi
trenta anni fa, ma nemmeno questo sarebbe vero. Tutto questo lo scrivo
ripensando un momento, perdendo il movimento nel tentativo di raccontarmelo.
Quanta inimicizia deriva dal racconto? E in luogo delle riflessioni su dono e racconto,
lì, accanto alla pozza della sorgente, un istante dopo essere arrivato e un
istante prima di accovacciarmi, guardo intorno per definire cosa sia
l’impressione di un surplus di silenzio, ossia per individuare chi o cosa
trattenga il fiato. Inquieto? No, non sono inquieto. Si trattiene il fiato per
l’agguato ma non solo. Il fiato trattenuto lì non è fiato di aggressore. Ma
ancora una volta sono solo impressioni: le parole verranno molto più tardi, scrivendo. Lì invece, accanto
alla pozza della sorgente, mi accovaccio e pesco l’acqua, immergo la brocca. A
terra, nel fango, arrivando non ho visto segni, nulla, il recinto all’imbocco
del F è intatto, l’ho spiato con la coda dell’occhio, e lo sbarramento
sul sentiero, quello d’emergenza, provvisorio da sei mesi, anche quello è
intatto. Pesco l’acqua, poi mi alzo, metto la brocca nello zaino, lo zaino
sulle spalle, tutto questo ovviamente non prima di aver bevuto, e alla fine mi
giro e ce l’ho di fronte. Mi fissa abbassando il grosso muso e le corna, il
silenzio si fa ancora più forte. Gli occhi li ha limpidi, riesco a distinguerne
la pietra e la radice. Non accenna a nulla, solo chiede che trattenga anche io
il fiato. Non ha campana al collo, ha con sé, alle spalle, il vitellino. Le
sorrido. Vasto universo il suo, largo due colli. Evasione vuol dire avanzare
fino al terzo colle, ossia alle sue pendici, al fondo della cava, lì dove ci
incontriamo insomma. E così penso all’orto che calpesterebbe, alle piante che
divorerebbe, ai pannelli e alla pompa che travolgerebbe, ai danni che mi
procurerebbe. Così penserei, avrei dovuto pensare. E invece non è vero, non
penso a questo. Penso a una madre col bambino? Penso a quale sia il tempo nella
sua testa? Penso a quale coscienza abbia del fatto che i suoi parti finiscono
in sparizioni? Penso alla gatta quando partorì in cucina e che vidi tornare e
trovare il cucciolo morto? A come pianse prima di divorarlo? Potrei dire che
penso a tutto questo e ancora non sarebbe vero. Non penso niente. Mi
impressiona solo lo sguardo di una vacca senza campana con il vitello al
seguito, la incontro in uno spazio clandestino, limitato all’attimo nel quale
esiste libera di dimenticare l’universo in cui è nata e che la costituisce. Piovono
considerazioni etiche, precipitano e sprofondano. Quanta idiozia è condensata
in parole? L’universo in cui sono nato mi costituisce.
Questa mattina mi son svegliato conservando nitida memoria di un sogno sognato. Non mi capita spesso, tuttavia questa mattina è capitato. Sarà per via dei discorsi che ieri in cucina ascoltavo proferire a mia moglie, mi son detto, o per la voce di mia madre al telefono (da quando sono padre la sento molto spesso), o forse anche per via del mare che vedo da qui, distante 5 km in linea d’aria – in qualche maniera irraggiungibile. Mio figlio ogni tanto mi chiede quando andremo . Intende quando sarà una giornata uguale all’ultima in cui andammo, ossia quando torneremo tutti insieme in una cala precisa, a suonare le chitarre e ballare. Ho pensato che forse andare al mare da adesso in poi vorrà dire scendere per sentieri lungo le montagne, dormire nelle tende e tornare tre giorni dopo. Di nascosto . Il pensiero non mi è dispiaciuto. Ho pensato che non dispiacerà nemmeno agli altri né a mio figlio. Ho pensato che nella semplicità di quello che lui chiede, negli occhi limpidi con cui deside...
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